Farmaci anti-COVID: il punto sui risultati ottenuti dalla ricerca

In mancanza di farmaci specifici contro COVID-19, la ricerca si...

Farmaci anti-COVID: il punto sui risultati ottenuti dalla ricerca

In mancanza di farmaci specifici contro COVID-19, la ricerca si è focalizzata sullo studio di molecole utilizzate in infezioni causate da virus della sottofamiglia dei beta-coronavirus, che oltre al SARS-CoV 2, comprende anche i virus responsabili di SARS e MERS.

Farmaci anti-COVID: il punto sui risultati ottenuti dalla ricercaIn mancanza di farmaci antivirali specifici mirati contro COVID-19, la ricerca farmacologica si è focalizzata sullo studio di molecole utilizzate in infezioni causate da virus della sottofamiglia dei beta-coronavirus, che oltre al virus SARS-CoV 2, comprende anche i virus responsabili della SARS e della MERS.

A oltre sei mesi dall’inizio della pandemia, sono emersi risultati interessanti nel campo degli antivirali e degli antinfiammatori, e per altri approcci come l’utilizzo di eparina e di plasmaterapia da donatori convalescenti, mentre per altre strategie i dati non sono stati altrettanto solidi.

Ne abbiamo parlato con Stefano Rusconi, professore Associato di Malattie Infettive, Dipartimento di Scienze Biomediche e Cliniche “Luigi Sacco”, Università degli Studi di Milano, che ha fatto il punto sui risultati ottenuti finora.

 

Antivirali
Ad oggi non sono stati identificati antivirali attivi in modo specifico contro SARS-CoV-2, ma i ricercatori hanno verificato la possibile attività di antivirali utilizzati per altri coronavirus, come ad esempio SARS-CoV-1 e MERS.
Un primo traguardo nella terapia di COVID-19 è rappresentato da remdesivir, analogo nucleotidico inibitore della RNA polimerasi RNA-dipendente, utilizzato per la terapia di EBOLA, che in fase preclinica sia in modelli “in vitro “ che in modelli animali ha dimostrato una buona attività antivirale contro il virus SARS-CoV 2.  Sulla base di questi risultati è stato messo a punto un programma di sviluppo clinico mirato a definire il potenziale terapeutico di remdesivir nei pazienti con COVID-19. Secondo i risultati dello studio NIAID ACTT-1, i pazienti con polmonite severa da COVID- 19, trattati a 9 giorni dall’inizio dei sintomi, per un massimo di 10 giorni, hanno ottenuto un recupero clinico più veloce rispetto al gruppo di controllo, senza differenze significative in termini di mortalità a 14 giorni.  Sulla base di questi dati anche la European Medicine Agency ha raccomandato l’autorizzazione all’immissione in commercio di remdesivir, subordinata a condizioni: in tal modo viene facilitato l’accesso precoce a farmaci durante situazioni di emergenza quali la pandemia in corso. AIFA sta distribuendo il farmaco, per pazienti con polmonite da SARS- Cov-2 che necessitano di supplementazione d’ossigeno, in modo efficiente e rapido.

Ad oggi sono attesi i risultati delle analisi mirate ad identificare le caratteristiche del paziente o gli esami di laboratorio/imaging associati ad una maggiore probabilità di risposta, così come devono essere resi noti i risultati sulla correlazione tra utilizzo di remdesivir e dinamiche della clearance virale.

La comunità scientifica è attualmente in attesa di conoscere i dati di confronto tra remdesivir ed altri antivirali:  nello studio SOLIDARITY,  promosso dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e mirato a diverse strategie terapeutiche tra cui remdesivir e lopinavir/ritonavir da solo o in combinazione con interferone beta, clorochina e idrossiclorochina, sono stati interrotti i bracci di trattamento con idrossiclorochina e lopinavir/r, per uno scarso o nullo effetto sulla mortalità e dubbi sul profilo di sicurezza,.

Si stanno inoltre analizzando le combinazioni di remdesivir con gli anticorpi monoclonali tocilizumab e baricitinib, per valutare l’effetto sinergico sulla risposta clinica dell’associazione tra remdesivir ed un intervento di modulazione del sistema immunitario.

 

Farmaci antinfiammatori
È stato evidenziato che uno dei principali danni causati da questo virus è correlato ad un’alterata risposta infiammatoria e in alcuni soggetti ad un abnorme rilascio di citochine pro-infiammatorie come interleuchina-6 (IL-6), interferone-gamma, tumor necrosis factor alfa. Per questo motivo i ricercatori hanno testato contro il COVID-19 farmaci antinfiammatori (in particolare anticorpi monoclonali), impiegati in reumatologia come inibitori della risposta immunitaria. In particolare tocilizumab (anticorpo diretto contro il recettore dell’IL-6) ha dimostrato di ridurre il rischio di ventilazione meccanica, ma sulla riduzione della mortalità i dati ottenuti sono contrastanti.  Sono stati inoltre sperimentati: sarilumab, anticorpo monoclonale antagonista del recettore di IL-6, anakinra, antagonista recettoriale di interleuchina-1 e emapalumab, anticorpo monoclonale anti-interferone gamma.

L’uso dei corticosteroidi in COVID-19 è stato al centro dello studio RECOVERY, che ha evidenziato un vantaggio di desametasone nel ridurre la mortalità a breve termine, con un effetto più evidente nei pazienti sottoposti a ventilazione meccanica. In assenza di strategie terapeutiche antivirali, l’uso dei corticosteroidi è uno strumento molto importante per controllare l’infiammazione sistemica.

L’impiego di eparina a basso peso molecolare (EBPM) sia a scopo profilattico che terapeutico, si è dimostrato è in grado di contrastare efficacemente le manifestazioni tromboemboliche che molto spesso si accompagnano all’infezione da SARS-CoV-2.

Il plasma ottenuto da donatori convalescenti (CP) è stato utilizzato in mancanza di trattamenti fondati su ipotesi eziopatogenetiche, come avvenuto durante le epidemie di SARS e MERS, di Ebola e nel corso di alcune epidemie influenzali (H1N1, H5N1): sono in corso in tutto il mondo almeno un centinaio di studi per l’utilizzo di CP nei pazienti con COVID-19. Indagini condotte su limitate serie di pazienti hanno riportato risultati favorevoli sia di tipo clinico che dei parametri di laboratorio (in termini di miglioramento dei marcatori di infiammazione e danno d’organo), osservando una rapida clearance del virus dopo l’infusione di CP ma nessuno studio controllato ha finora ottenuto gli stessi risultati in termini di outcome clinico, mentre è stata invece confermata la clearance virale a 72 ore, risultato mai ottenuto da nessun altro studio condotto con antivirali o immunomodulanti.

Diversi dati supportano l’ipotesi di un ruolo degli anticorpi contenuti nel CP nella clearance della carica virale di SARS-CoV-2. Il plasma dei pazienti guariti contiene un pool di anticorpi che può riconoscere ed eventualmente neutralizzare il microrganismo, ma il singolo bersaglio dell’anticorpo monoclonale potrebbe non essere sufficiente per l’inibizione del virus e probabilmente sarà necessario utilizzare una combinazione di anticorpi.

L’analisi corretta dei risultati condotti finora è resa complessa dal fatto che nessun controllo riceve plasma da donatore non esposto a SARS-CoV2. Infine esiste una grande disomogeneità nei titoli anticorpali dei plasma utilizzati.

Farmaci anti-COVID: il punto sui risultati ottenuti dalla ricercaIn mancanza di farmaci antivirali specifici mirati contro COVID-19, la ricerca farmacologica si è focalizzata sullo studio di molecole utilizzate in infezioni causate da virus della sottofamiglia dei beta-coronavirus, che oltre al virus SARS-CoV 2, comprende anche i virus responsabili della SARS e della MERS.

A oltre sei mesi dall’inizio della pandemia, sono emersi risultati interessanti nel campo degli antivirali e degli antinfiammatori, e per altri approcci come l’utilizzo di eparina e di plasmaterapia da donatori convalescenti, mentre per altre strategie i dati non sono stati altrettanto solidi.

Ne abbiamo parlato con Stefano Rusconi, professore Associato di Malattie Infettive, Dipartimento di Scienze Biomediche e Cliniche “Luigi Sacco”, Università degli Studi di Milano, che ha fatto il punto sui risultati ottenuti finora.

 

Antivirali
Ad oggi non sono stati identificati antivirali attivi in modo specifico contro SARS-CoV-2, ma i ricercatori hanno verificato la possibile attività di antivirali utilizzati per altri coronavirus, come ad esempio SARS-CoV-1 e MERS.
Un primo traguardo nella terapia di COVID-19 è rappresentato da remdesivir, analogo nucleotidico inibitore della RNA polimerasi RNA-dipendente, utilizzato per la terapia di EBOLA, che in fase preclinica sia in modelli “in vitro “ che in modelli animali ha dimostrato una buona attività antivirale contro il virus SARS-CoV 2.  Sulla base di questi risultati è stato messo a punto un programma di sviluppo clinico mirato a definire il potenziale terapeutico di remdesivir nei pazienti con COVID-19. Secondo i risultati dello studio NIAID ACTT-1, i pazienti con polmonite severa da COVID- 19, trattati a 9 giorni dall’inizio dei sintomi, per un massimo di 10 giorni, hanno ottenuto un recupero clinico più veloce rispetto al gruppo di controllo, senza differenze significative in termini di mortalità a 14 giorni.  Sulla base di questi dati anche la European Medicine Agency ha raccomandato l’autorizzazione all’immissione in commercio di remdesivir, subordinata a condizioni: in tal modo viene facilitato l’accesso precoce a farmaci durante situazioni di emergenza quali la pandemia in corso. AIFA sta distribuendo il farmaco, per pazienti con polmonite da SARS- Cov-2 che necessitano di supplementazione d’ossigeno, in modo efficiente e rapido.

Ad oggi sono attesi i risultati delle analisi mirate ad identificare le caratteristiche del paziente o gli esami di laboratorio/imaging associati ad una maggiore probabilità di risposta, così come devono essere resi noti i risultati sulla correlazione tra utilizzo di remdesivir e dinamiche della clearance virale.

La comunità scientifica è attualmente in attesa di conoscere i dati di confronto tra remdesivir ed altri antivirali:  nello studio SOLIDARITY,  promosso dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e mirato a diverse strategie terapeutiche tra cui remdesivir e lopinavir/ritonavir da solo o in combinazione con interferone beta, clorochina e idrossiclorochina, sono stati interrotti i bracci di trattamento con idrossiclorochina e lopinavir/r, per uno scarso o nullo effetto sulla mortalità e dubbi sul profilo di sicurezza,.

Si stanno inoltre analizzando le combinazioni di remdesivir con gli anticorpi monoclonali tocilizumab e baricitinib, per valutare l’effetto sinergico sulla risposta clinica dell’associazione tra remdesivir ed un intervento di modulazione del sistema immunitario.

 

Farmaci antinfiammatori
È stato evidenziato che uno dei principali danni causati da questo virus è correlato ad un’alterata risposta infiammatoria e in alcuni soggetti ad un abnorme rilascio di citochine pro-infiammatorie come interleuchina-6 (IL-6), interferone-gamma, tumor necrosis factor alfa. Per questo motivo i ricercatori hanno testato contro il COVID-19 farmaci antinfiammatori (in particolare anticorpi monoclonali), impiegati in reumatologia come inibitori della risposta immunitaria. In particolare tocilizumab (anticorpo diretto contro il recettore dell’IL-6) ha dimostrato di ridurre il rischio di ventilazione meccanica, ma sulla riduzione della mortalità i dati ottenuti sono contrastanti.  Sono stati inoltre sperimentati: sarilumab, anticorpo monoclonale antagonista del recettore di IL-6, anakinra, antagonista recettoriale di interleuchina-1 e emapalumab, anticorpo monoclonale anti-interferone gamma.

L’uso dei corticosteroidi in COVID-19 è stato al centro dello studio RECOVERY, che ha evidenziato un vantaggio di desametasone nel ridurre la mortalità a breve termine, con un effetto più evidente nei pazienti sottoposti a ventilazione meccanica. In assenza di strategie terapeutiche antivirali, l’uso dei corticosteroidi è uno strumento molto importante per controllare l’infiammazione sistemica.

L’impiego di eparina a basso peso molecolare (EBPM) sia a scopo profilattico che terapeutico, si è dimostrato è in grado di contrastare efficacemente le manifestazioni tromboemboliche che molto spesso si accompagnano all’infezione da SARS-CoV-2.

Il plasma ottenuto da donatori convalescenti (CP) è stato utilizzato in mancanza di trattamenti fondati su ipotesi eziopatogenetiche, come avvenuto durante le epidemie di SARS e MERS, di Ebola e nel corso di alcune epidemie influenzali (H1N1, H5N1): sono in corso in tutto il mondo almeno un centinaio di studi per l’utilizzo di CP nei pazienti con COVID-19. Indagini condotte su limitate serie di pazienti hanno riportato risultati favorevoli sia di tipo clinico che dei parametri di laboratorio (in termini di miglioramento dei marcatori di infiammazione e danno d’organo), osservando una rapida clearance del virus dopo l’infusione di CP ma nessuno studio controllato ha finora ottenuto gli stessi risultati in termini di outcome clinico, mentre è stata invece confermata la clearance virale a 72 ore, risultato mai ottenuto da nessun altro studio condotto con antivirali o immunomodulanti.

Diversi dati supportano l’ipotesi di un ruolo degli anticorpi contenuti nel CP nella clearance della carica virale di SARS-CoV-2. Il plasma dei pazienti guariti contiene un pool di anticorpi che può riconoscere ed eventualmente neutralizzare il microrganismo, ma il singolo bersaglio dell’anticorpo monoclonale potrebbe non essere sufficiente per l’inibizione del virus e probabilmente sarà necessario utilizzare una combinazione di anticorpi.

L’analisi corretta dei risultati condotti finora è resa complessa dal fatto che nessun controllo riceve plasma da donatore non esposto a SARS-CoV2. Infine esiste una grande disomogeneità nei titoli anticorpali dei plasma utilizzati.


Ultimo aggiornamento: 23 Settembre 2022

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